Nikt come nessuno

Bambino mio, ti chiedo scusa. Mio dolce Nikt, ti domando perdono.
Ero sola, avevo paura, non sapevo da dove iniziare. Sapevo solo che dovevo andar via.
Non dovevi esistere per la prima volta in una notte come quella, bambino mio. Perché non ricordo amore, in quella notte. Ne ricordo il buio, l’odore, il rumore, il dolore, ma non ricordo amore. Non ho raccontato a nessuno quel nero denso, i vestiti che ho bruciato, la disperazione con cui ho cercato le stelle e le ho chiamate, senza trovarne alcuna: non sarai tu il primo ad ascoltare questa storia. In ogni successivo minuto, pregai perché quel freddo mi abbandonasse, perché quella ferita smettesse di bruciare, perché quel ricordo si dileguasse. Sperai che il tempo potesse cancellare quelle ore di violenza.
Sperai soltanto che tu non arrivassi mai.
E invece eri lì. E io ti sentivo. Ogni giorno, ogni notte, io ti sentivo.
Passarono i mesi. Nascondevo il mio ventre gonfio sotto le gonne larghe.
Ma tu eri ovunque: nei miei passi lenti, nel mio bisogno di aiuto, nelle mie notti insonni, nei miei occhi stanchi, nei miei piedi gonfi.
Un giorno inciampai mentre portavo dell’acqua al campo. L’otre si ruppe, l’acqua mi bagno i vestiti. E allora mi sembrò che piano ti spegnessi. L’acqua si tinse di rosa, e io non capii. Poi il mio vestito si colorò di rosso, e così le mie mani e i miei piedi e le mie gambe… stavo correndo. Stavo scappando.
Stavo soffrendo. Lasciavo la mia famiglia, il mio mondo, e avevo solo te. Eri la casa che portavo con me in quel viaggio, eri l’unico amore che avevo potuto scegliere.
Mi svegliai su un pagliericcio: accanto, un lenzuolo sporco; una donna grassa e sudata vicino. Mi disse che andava tutto bene, che era tutto finito, che di lì a pochi giorni saresti nato. Ma che dovevo andar via, che degli uomini erano venuti a cercarmi. Ed erano zingari. Ero zingara anch’io, chissà se lei lo capì.
Pensai a mio padre in quel viaggio, a come avrebbe difeso il mio onore di donna se solo non avessi avuto il timore di raccontargli la mia vergogna.
Pensai al fatto che così disonorata, non mi avrebbe voluta nessuno e che mai avrei avuto un matrimonio bello come quello delle mie sorelle. Pensai che il buio di quella notte mi aveva nascosto il volto di tuo padre. Per la mia gente, fuggire è come morire. Ma pensai anche a te. Eri maschio, lo sapevo. Avresti avuto i miei occhi verdi? Quale sarebbe stato il tuo odore? Mi avresti amata?
Sei nato a Zagreb, in un palazzo abbandonato nella periferia. Per una settimana intera non hai mangiato. Hai urlato. Pianto e urlato. Eri bellissimo, eri perfetto, e sapevi di miele. Ma avevo paura, tanta paura, perché non crescevi.
Chiedevo l’elemosina sui marciapiedi del centro e tu urlavi e piangevi, continuamente. Quel settimo giorno, un uomo si fermò a guardarti: si inginocchiò, ti visitò.
Scoprii dopo un anno che in quei primi mesi di vita eri diventato anoressico.
Ed eri iperattivo: correvi continuamente intorno, lanciavi i tuoi giocattoli per terra… Avevi il corpo di un neonato e mi stupivo tu riuscissi a stare in piedi.
Fu quel signore del tuo settimo giorno a dirmi dell’ospedale pediatrico di Gornja. Tu non capirai, piccolo mio, ma io soffrii e piansi per ogni passo che feci percorrendo quei trenta chilometri. Tu non lo puoi capire, ma quel medico fu l’unico disposto ad aiutarmi.
Prima che tu nascessi, avevo trovato un rimedio al male, alla paura che avevo del buio. Imparai che l’alcool non soltanto disinfettava  le ferite, ma le cancellava. Annebbiava la vista come le lacrime, certo, ma assopiva i sensi, spegneva i tormenti, allentava la morsa di quei brutti ricordi e mi cullava nel sonno.
Fui per te, in quei momenti, l’ennesimo disonore, ma volli che fossero l’ultima traccia di quella notte scura. Mi venne offerta l’opportunità di salvare entrambi, e io accettai. E lo feci per te, scegliendo te, amando te. Non potevo offrirti niente, non sapevo insegnarti nulla, non potevo essere la tua casa.
Ti ho lasciato davanti alle porte di quell’ospedale con la sola tutina che avevi.
Ricordo ogni istante di quel giorno.
Hai raccolto una foglia da terra e l’hai guardata. L’hai avvicinata alle labbra e hai sollevato lo sguardo su di me. Ti ho sorriso: questa volta sì, la potevi mangiare. Ho chiuso gli occhi, ti ho baciato. Hai morsicato quella punta di verde e hai ingoiato. Sapevo che avresti urlato. Mi sono voltata, e per l’ultima volta sono scappata. Avevo 17 anni.
Eri l’unico amore che avevo potuto scegliere.
Loro ti diedero un nome: ti chiamarono Dejan.


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